L'argomento, di per sè non è una novità. Tutti ne parlano da tempo.
Sia il Garante italiano sia il Data Protection Working Party gli hanno dedicato, nel corso dell'ultimo anno, approfondimenti specifici (tra tutti si veda questo documento: http://ec.europa.eu/justice_home/fsj/privacy/docs/wpdocs/2009/wp163_it.pdf).
Nessuno, però, aveva pensato di misurare quanto effettivamente i Social Network fanno per garantire agli utenti l'effettiva protezione dei loro dati personali.
In un pregevole lavoro, due ricercatori della Cambridge University, colmano questa lacuna.
"The Privacy Jungle: On the Market for Data Protection in Social Networks" illustra, attraverso 260 "privacy criteria", i risultati ottenuti da (ben) 45 siti di social network (in prevalenza USA ma anche Europei, asiatici e sud americani).
Le conclusioni cui pervengono gli autori portano a definire "disfunzionale" l'attenzione posta alla protezione dei dati in ragione di una significativa variazione dei controlli posti in essere da ciascun sito, dei dati personali oggetto di raccolta e delle politiche di tutela della privacy adottate.
Un esempio: i parametri di settaggio del livello di protezione dei dati si presentano in maniera eccessivamente complessa non tenendo conto del fatto che fornire agli utenti troppe informazioni e opzioni di configurazione possono danneggiare l'usabilità e la comprensione chiara dei propri diritti. Chi è risultato essere il peggiore? Facebook, naturalmente, con 61 opzioni da selezionare sparse in 7 diverse pagine (ma anche Linkedin ne esce piuttosto male con 57 opzioni da selezionare).
Un altro interessante esperimento, relativo ai meccanisimi che sono alla base delle modalità attraverso le quali ciascuno di noi divulga e diffonde in ambiti spesso incontrollati i propri dati personali, come nel caso dei social network, è stato condotto da ricercatori della Carnegie Mellon (The Best of Strangers: Context-dependent willingness to divulge personal information).
Contrariamente a quanto assunto da gran parte delle ricerche di scienze sociali che tendono a rimarcare come le persone siano attente alla propria privacy, lo studio dimostra che la divulgazione di informazioni private è influenzata da fattori contestuali: i tre distinti esperimenti, condotti attraverso questionari, hanno dimostrato come ad una maggiore attenzione agli aspetti formali di tutela della privacy (informativa, richiesta di consenso esplicito, rassicurazione sulle modalità attraverso le quali venivano trattati i dati personali forniti), non sia corrisposta una maggiore fiducia da parte delle persone coinvolte nell'esperimento che, anzi, hanno rivelato informazioni sensibilissime e personalissime (tipo: Fai uso o hai mai acquistato cocaina?) nei casi in cui il questionario non era corredato da specifiche rassicurazioni sulle modalità di trattamento dei dati personali.
Sia il Garante italiano sia il Data Protection Working Party gli hanno dedicato, nel corso dell'ultimo anno, approfondimenti specifici (tra tutti si veda questo documento: http://ec.europa.eu/justice_home/fsj/privacy/docs/wpdocs/2009/wp163_it.pdf).
Nessuno, però, aveva pensato di misurare quanto effettivamente i Social Network fanno per garantire agli utenti l'effettiva protezione dei loro dati personali.
In un pregevole lavoro, due ricercatori della Cambridge University, colmano questa lacuna.
"The Privacy Jungle: On the Market for Data Protection in Social Networks" illustra, attraverso 260 "privacy criteria", i risultati ottenuti da (ben) 45 siti di social network (in prevalenza USA ma anche Europei, asiatici e sud americani).
Le conclusioni cui pervengono gli autori portano a definire "disfunzionale" l'attenzione posta alla protezione dei dati in ragione di una significativa variazione dei controlli posti in essere da ciascun sito, dei dati personali oggetto di raccolta e delle politiche di tutela della privacy adottate.
Un esempio: i parametri di settaggio del livello di protezione dei dati si presentano in maniera eccessivamente complessa non tenendo conto del fatto che fornire agli utenti troppe informazioni e opzioni di configurazione possono danneggiare l'usabilità e la comprensione chiara dei propri diritti. Chi è risultato essere il peggiore? Facebook, naturalmente, con 61 opzioni da selezionare sparse in 7 diverse pagine (ma anche Linkedin ne esce piuttosto male con 57 opzioni da selezionare).
Un altro interessante esperimento, relativo ai meccanisimi che sono alla base delle modalità attraverso le quali ciascuno di noi divulga e diffonde in ambiti spesso incontrollati i propri dati personali, come nel caso dei social network, è stato condotto da ricercatori della Carnegie Mellon (The Best of Strangers: Context-dependent willingness to divulge personal information).
Contrariamente a quanto assunto da gran parte delle ricerche di scienze sociali che tendono a rimarcare come le persone siano attente alla propria privacy, lo studio dimostra che la divulgazione di informazioni private è influenzata da fattori contestuali: i tre distinti esperimenti, condotti attraverso questionari, hanno dimostrato come ad una maggiore attenzione agli aspetti formali di tutela della privacy (informativa, richiesta di consenso esplicito, rassicurazione sulle modalità attraverso le quali venivano trattati i dati personali forniti), non sia corrisposta una maggiore fiducia da parte delle persone coinvolte nell'esperimento che, anzi, hanno rivelato informazioni sensibilissime e personalissime (tipo: Fai uso o hai mai acquistato cocaina?) nei casi in cui il questionario non era corredato da specifiche rassicurazioni sulle modalità di trattamento dei dati personali.
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